CH’OSÈ ADD'ACCÙSSÌ

06/10/2016
CON I SOCI S.O.M.S. DI AVIGLIANO, TRA GLI ORI DI TARANTO. UNA GITA AL MAR.TA, IL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI TARANTO
 
Partecipare alle attività di sensibilizzazione e ristoro culturale, promosse da Andrea Genovese nella sua qualità di Presidente e di tutto il Consiglio di Amministrazione della S.O.M.S. di Avigliano, inutile negarlo, è, sempre più piacevole, oltre che utile alla socializzazione del variegato mondo che esprimiamo come soci di questo storico sodalizio. Ne prendo atto, con viva soddisfazione. Aderire alle tante iniziative, grazie a un progetto curato in ogni suo dettaglio, con meticolosa e dettagliata puntualità, e rifinito dalle veterane Caterina e Margherita, è sempre “garanzia di riuscita e di successo”, come affermano, soddisfatti, i soci, ed io con loro, ogni volta che vi ho partecipato. Domenica scorsa, la prima del mese di ottobre, di buon mattino, ero là, nel piazzale della FAL, la nostra Stazione Ferroviaria. Ero là, come da programma, uno di un piccolo esercito di oltre cento persone – una centuria, si sarebbe detto nell'età augustea – che, su due pullman, colmi zeppi, e, dopo conviviali saluti e l'immancabile appello, è partita alla volta della Città dei due Mari: Taranto o Taras, come la chiamarono i greci, che il “nostro” poeta venosino, Quinto Orazio Flacco, immortala in un' ode con questi versi di ineguagliabile bellezza: «Quell'angolo di mondo più d'ogni altro m'allieta...” .

Dunque la vecchia Taras, quella che fu l'unica colonia su suolo italico della Magna Grecia, fondata da Sparta: eterna rivale della più sofisticata Atene. Come Sparta, anche la Città dei Delfini fu abitata da guerrieri e da atleti. Due sole ore di viaggio, due ore trascorse immersi nella malia della luce delle albe ottobrine e in magnifici paesaggi lucani. Osservo e mi ricordo la grande pittura del trecento senese, Piero della Francesca, il paesaggio protagonista nelle opere pittoriche del Seicento. Corrono le colline, col loro carico antropizzato, mentre i segni dell'acclamata nuova necessità energetica si inchiodano al cielo, quasi dappertutto. Sarà l'ambiente, sarà la fantasia, sarà il senso di pacata quiete che mi coglie, ma questo paesaggio, mutevole, fatto di boschi di faggio, di scorci Dolomitici, di Calanchi, non disturbato come l'altro, dalle pale eoliche, assume un'importanza inusuale. Le sue sfumature, i toni velati, ribadiscono la tecnica pittorica leonardesca. Anche qui, in questo nuovo quadro reale, proprio come in quelli del genio toscano, l’aria è rappresentata, insiste e la percepisci nei suoi diversi piani sino allo sfondo. Evidenti tetti assolati, le costruzioni, poderi della Riforma Agraria; si affollano i pensieri, vanno agli eroi delle lotte contadine, che mi lasciano l'eco nei versi di Rocco Scotellaro: “E’ caduto Novello sulla strada dell’alba / a quel punto si domina la campagna...”.

Due sole ore ed eccoci giunti alla pòlis greca: una delle capitali del mondo antico. Lambiamo il polo siderurgico dell'ILVA: un mostro che graffia, ferisce, che unge, tinge di veleno oltre l'assise. Attuali le questioni legate al suo condizionamento ambientale, fortemente compromesso; agli interrogativi irrisolti del diritto al lavoro, alla salute, o ad entrambi? Noi diciamo entrambi!. Eccolo comparire, appena mosso, il Mar Grande. Ha colore bluastro, ma non è l'oceano e il suo odore ora, copre quello del metallo oleato. Sospesi, nella sua linea dell'orizzonte con il filo rossastro della banchina che ne accompagna le forme, beccheggiano i natanti, senza concedere nulla alla decorazione, ripetono, noioso, il loro moto. Un' immagine surreale che mi ricorda la pittura del Maestro Mario Sironi. I suoi paesaggi decadenti, di periferia urbana industrializzata, qui rivivono traslati; sono ancora, eternamente, carichi di dramma. La condizione umana da allora non è diversa, anzi, è precipitata tragicamente, e, aggressiva: sembra voler travolgere ogni cosa. La salvezza che l'artista indicava, invitando a ritrovare gli ideali, non ha riscontrato evidente recupero. La vita non è “lirica entità”. Essa ha smarrito i suoi ideali, sempre di più erosi dalla solitudine di un potere cannibale che fa incetta delle vacue ambizioni di possesso. Forse!

Il mio, come l'altro pullman, indolente procede la corsa, e Michele, il bravo autista, si preoccupa di deliziarci con canzoni dei mitici anni sessanta. Prontamente, qualcuno ne approfitta e ne ripete, intonato, il ritmo. C'è il Ponte Girevole, il Castello Aragonese. Lambiamo uno dei mercati del pesce: è una striscia di città portuale, coi suoi muri tetri, le sue insegne sgangherate dal tempo e scavate dall'acqua che da aria salmastra. Un pezzo di città che scorre alla nostra stessa velocità, ma, solamente, più spinta. Una sosta e di nuovo un'altra meraviglia. Questa volta è un pannello in mattonelle di ceramica che riveste una grande parete di un fabbricato sul lungomare del Borgo antico. Raffigura il Mito di Falanto. Racconta la fondazione della città come prima colonia greca. Così mi dirà, di lì a breve, la brava Maria (La nostra guida, una donna dalla figura un po' affrancata dalla verticalità, ma con una bella chioma riccioluta di oro ramato, dai gesti sapienti e con occhi adamantini.) prima di guidarci tra i tesori rinvenuti e custoditi nel “suo” Museo. Il pullman si ferma, deve dare la precedenza. Sostiamo. Ancora un piccolo tratto ed eccola la meta: il MARTA (Museo Archeologico Nazionale di Taranto). 18 gli anni di lavori necessari per ristrutturare l'edificio e configurarlo come lo vediamo adesso: disegnato con cura secondo i canoni museali, per dare degna ospitalità e godibilità ai suoi tesori finalmente tornati alla luce dopo aver gemito al buio di angusti depositi. Prima che Maria, la guida di cui accennavo, ci accoglie la copia della testa di Eracle. Enorme, è là, nello spazio, che pare voler mimare la vecchia “Agorà”.

Maria, sempre lei, ci lascia gustare la scena e poi, con spigliata loquacità, riferisce che è il 1887 quando viene istituito il Museo Archeologico Nazionale di Taranto, e che lo stesso insiste su di un corpo murario che fu dell’ex Convento dei Frati Alcantarini, di cui il chiostro ne è l'ultima testimonianza. Iniziamo la visita distinti in due diversi e nutriti gruppi. Registro tutto il possibile, almeno ci provo aiutandomi con qualche fotografia. Seppure senza il conforto dell'aria condizionata, abbiamo goduto lo stesso di quegli immensi tesori, della storia di Taranto delle sue diverse età, del suo sviluppo urbano. É affascinante fermarsi e chiedersi delle storie che convivono in un museo. Ori, suppellettili, mosaici, anfore, sculture, stratificazioni sono là, ben disposti a raccontare fuori campo la Storia. Stele con iscrizioni in ebraico, in arabo in greco-bizantino e arabo, dicono di una comunità tollerante, di una città multiculturale in cui si conviveva pacificamente. Si avvicendano civiltà, imperatori, eroi, condottieri, matrone e fanciulle. Un percorso essenziale, quello che abbiamo fatto, ma bastevole a comprendere gli elementi di storia, quelli archeologici della città e del territorio messapico. Ovunque c'è la bellezza. Perfino la scorgo nella mia scarpa che ho sporca di una macchia di grasso di imprecisabile provenienza, proprio come ho la giacca: uno sbadato, indomito pure al sempre vigile sguardo di mia moglie! Teche, teche, teche...edicole, istruzioni. Un monitor sensibile al tatto impressiona tutto. Leggo, guardo, ammiro, spazio.

Sono in buona compagnia, con me l'inseparabile e amorevole Margherita. C'è Anna, Mimì. Una signora che non conosco, si aggira con noi, come un'agile da gazzella, tra le varie sezioni, fotografa. Francesco, Pierino, Rosanna, Carmelina, Lucia, Nicola, Irene... lo sguardo è estasiato e le labbra sono appena aperte. Finisco schiacciato da una densità ignota, quasi fosse materia astrale. Eccola la famosa tomba dell'atleta di Taranto col suo corredo funebre e lo scheletro dell'atleta con i suoi trofei vinti alle Olimpiadi. Ben assicurati, alla pareti c'è l'esempio di quelle lavorazioni di arredo decorativo funzionale ed architettonico, che sono le pavimentazioni. Le tessere dei mosaici, combinate in policromie, raffigurano la vita di allora. Si vedono scene di caccia, di guerra; il carro bellico, governato dal suo conduttore che fatica a trattenere il furore dei cavalli trainanti: evidentemente eccitati dal suono della battaglia. Più di tutti, due di essi mi colpiscono particolarmente. Nella loro costruzione riportano una figura geometrica pura, riprodotta con ordine armonico: è il modulo; è l'astrazione! Un flash, un lampo e rivedo Kandinskij, il suo ordine armonico. Klee e il suo problema di capire la creatività. Il loro interesse intellettuale è qua. Di qua si parte per spaziare e andare molto al di là della disciplina pittorica. Leggo la filosofia, la poesia, la musica e scienze naturali. Siamo il XVIII, il XIX Sec., “solamente” ricondotti a II Sec. a.C.! É la Grecia classica, e il mondo contemporaneo, dopo oltre duemila anni, sembra averne eccessivamente diluita la lezione.

Pepite di oro puro. Come gli ori di Taranto di epoca ellenistica e romana; sintesi della famosa lavorazione, di cui, con indigeno orgoglio e molta ragione, ci riferisce la guida. Si tratta di una collezione di gioielli: anelli, orecchini, bracciali, bellissimi monili di epoca magno-greca, testimonianza di un lusso ricercato, restituito con bellezza aristocratica, raffinata, gentile, come il capolavoro della bronzistica classica impressionato nelle sembianze di Zeus di Ugento (Le). Poi, eccola che “appare” lei, col suo enigmatico sorriso, “Persefone Gaia”, figlia di Demetra e di Zeus, il cui enigma sulla sua vera identità non è ancora sciolto. Molti studiosi, precisa Maria, dicono non trattarsi Persefone, dea degli inferi, ma, piuttosto, di Afrodite, signora del talamo e dea della fecondità. Il dilemma, di cui non avevo nessuna dimensione, è là, materializzato in una copia identica all'originale, realizzata in materiale amorfo, che sembra di pietra grazie all'utilizzo della tecnologia, e alla scansione digitale a laser. L'originale, fu acquistata (pare per una cifra non congrua, come si direbbe oggi, in piena mercificazione di tutto) dall'Imperatore tedesco Guglielmo II. Ora si trova a Berlino, nell'Altes Museum. Qui, da italiano medio che sono, faccio ammenda della mia ignoranza. Lo confesso, non conoscevo la storia della “dea in trono di Berlino”, ma cosa ancora più grave, non sapevo della sua esistenza. Dio mio. Quel suo sorriso enigmatico, mi accompagnerà per il resto del mio percorso di vita. Inevitabile la sua comparazione con un altro sorriso, ma impresso su tela, e che gode fama mondiale: la Gioconda di Leonardo da Vinci; immenso capolavoro dell'arte rinascimentale italiana. Affascinante, non c'è dubbio.

La gioia che si prova di fronte a questi capolavori è minata dalla tristezza di questi tempi contemporanei, dove l'arte sembra essersi “glacializzata” e non riesce a trovare nessun altra motivazione che non sia quella del mercato. Di qui, anche Taranto, come tutta la nostra società, vive nel disagio, e la questione ILVA è solo la punta dell'iceberg. L'imperante modello socio economico, non funesta solo la prima colonia greca, ferita nella bellezza, compressa nel vuoto dell'effimero, sottomessa a se stessa. Allora, per questo, caro Presidente Genovese, sento di rivolgerti il mio ringraziamento, che voglio esprimerti con assoluta purezza e che ti prego estendere con la stessa intensità a Lino, a Rosa, a Francesco, a Pietro, a Felicetta, a Donato, a Mariano a Carmelina. Questa “gita”, sono certo, l'hai voluta immaginando potesse rappresentare idealmente uno dei passi da muovere verso un Ponte da percorrere, rappresentandoci nel bisogno vitale di rinascere attraverso il recupero della coscienza, che, a mio avviso, resta il solo fondamento identitario su cui fondare lo sviluppo. Quello stesso Ponte che ho visto rappresentato nella foto ritraente il volto addolorato del Santo Padre: inginocchiato nel mezzo di una rovinata via di Amatrice.

 
a cura di Donato Claps
fonte aviglianonline.eu