LA CITTÀ DEL SOLE

02/12/2014
LUCIANO VASSALLO, METICCIO D'ETIOPIA CAMPIONE D'AFRICA
 
Ispirandosi ad una celebre canzone dei Beatles, nel 1974 gli archeologi ribattezzarono “Lucy” lo scheletro di una giovane ominide vissuta circa tre milioni e mezzo di anni fa. Paleoantropologicamente cosiderato il “nonno dell’umanità” è stato rinvenuto ad Afar, Etiopia nord-orientale. Terra di miti, di leggende, e di enigmatici obelischi. Come quello di Aksum, emblema della progredita cultura architettonica dell’omonimo regno. A detta di Mani, padre della religione manichea, una delle quattro entità commerciali più influenti del mondo, al pari di Roma, Persia e Cina. Indubbiamente affascinante. Anche se osservata da altri punti di vista. Specie quello colonialista.

Sin dai tempi della militanza nel Partito Socialista, in Benito Mussolini albergavano spinte interventiste di ispirazione repubblicana. Mai sopite ed anzi sfocianti nella fondazione del Popolo d’Italia. All’indomani della marcia su Roma, la creatura giornalistica del Duce divenne l’organo di stampa ufficiale del Partito Nazionale Fascista. Suntuari sulle vicende di partito, cronaca, ma soprattutto propaganda. “Addis Abeba è italiana” è il titolo che campeggia in prima pagina il 6 Maggio 1936. Tre giorni dopo a confermare l’indiscrezione ed alimentare l’enfasi colonialista ci pensa il Regime Fascista, titolando “Il Re d’Italia Imperatore d’Etiopia”. Di li a poco il Duce si affaccerà al balcone di Palazzo Venezia, saluterà la folla festante con la mano levatamente romana e con espressione tronfia annunzierà l’annessione italiana dell’Etiopia. La conquista è notevole, l’Etiopia è il tassello mancante per completare il mosaico dell’Africa Orientale Italiana.

Sigla A.O.I, il contenitore colonialistico tricolore, poteva annoverare già Eritrea e Somalia. Ma non ancora l’Etiopia, sfuggita alle mire espansionistiche nel 1896, con la pesante disfatta di Adua. Una ferita da rimarginare, una parentesi di disdoro da chiudere con la capitolazione etiope. Lo chiamano revanscismo, è la responsabilità di un regime di dimostrarsi migliore di ciò che vi era prima. O forse è semplicemente propaganda. Fatto sta che l’Etiopia viene inglobata dai pantagruelici appetiti italici, Addis Abeba viene elevata al rango di capitale dell’A.O.I., mentre nelle radio italiane spopola il brano “Faccetta nera”, scritto per l’occasione da Renato Micheli e musicato da Mario Ruccione. Spinti dal motto “l’aratro traccia il solco e la spada lo difende”, una moltitudine di soldati si riversa nel Corno d’Africa.

Tra di essi anche Vittorio Vassallo, padre di Luciano, leader carismatico dell’Etiopia Campione d’Africa nel 1962. Una scalata storica accompagnata dal calore del pubblico di Addis Abeba. La città fondata dal negus Menelik II in onore della moglie, eponimo della città, e sormontata dalle vette affilate del monte Entoto. Nel cuore della metropoli, non molto distante dalla caotica Piazza Meskel e a due passi dalla stazione ferroviaria di Legehar sorge l’Hailé Selassié Stadium, il più importante impianto della nazione. Intitolato alla memoria dell’ultimo negus e scrigno dell’apogeo calcistico della nazionale etiope. Era il 21 Gennaio 1962. Kidane, Vassallo e una doppietta di Worku rimontavano le reti di Abdelfattah Badawi, consegnando la Coppa d’Africa all’Etiopia a scapito della Repubblica Araba Unita. Ad Addis Abeba esplode la festa, la gioia incontenibile si trasferisce dallo stadio alle strade: “Addis Abeba era fantastica. Dopo la finale per tornare in albergo in auto ci impiegammo delle ore, da tanta gente che era venuta a festeggiarci”. A parlare è Luciano Vassallo, capitano e regista di quella squadra. Frutto dell’unione tra un soldato italiano e una donna eritrea, Mebrak, Luciano è uno dei due meticci aggregati alla selezione etiope. L’altro è il fratello Italo, attaccante del Cotton FC dotato di notevoli mezzi atletici, in grado di conquistare quattro scudetti etiopi tra il 1960 e il 1965 .Per via del suo particolare status l’approccio coi compagni non è dei migliori, con quest’ultimi restii ad eleggerlo capitano. Superate le diffidenze iniziali il tecnico Yidnekatchew Tessema affida a Vassallo le chiavi del centrocampo etiope. Non se ne pentirà. Insieme a Worku, a detta dello stesso Vassallo “il più forte giocatore etiope di sempre”, faranno di quella nazionale una delle più belle ammirate nel Continente Nero, tanto da guadagnarsi il lusinghiero appellativo di "Brasile d'Africa".

Figlio di un soldato etiope, perito durante i combattimenti con gli italiani, Mengistu Worku inizia a giocare all’età di sedici anni nel San Giorgio, club della capitale di cui diventerà bandiera segnando valanghe di goal. Debutta in Nazionale nel 1958, ma solo quattro anni più tardi l’eco delle sue gesta lo renderà immortale. Superato agevolmente il Kenya nelle fasi di qualificazione, i Leoni Neri inaugurano la rassegna iridata scortati dal respiro fedele di Addis Abeba. Avversario la Tunisia, giunta alla fase finale dopo aver beneficiato dell’esclusione a tavolino del Marocco. Merrickhou al quarto d’ora spaventa il pubblico di casa portando avanti le Aquile di Cartagine. Poco dopo arriva addirittura il raddoppio tunisino firmato dell’implacabile Moncef Cherif. La paura si impossessa dei cuori etiopi, d’un tratto il frastuono lascia spazio al silenzio. La reazione etiope però non si fa attendere: prima Vassallo dagli undici metri e poi Girma riequilibrano le sorti dell’incontro al crepuscolo della prima frazione. Importante rattoppare il risultato, per poi riorganizzare le idee ed assestare la spallata decisiva nella ripresa. Cosi è. Ancora una volta Vassallo e Worku trascinano i Leoni Neri rinfocolando la verve dei tifosi assiepati sugli spalti.

A contendere il titolo ai ragazzi di Tessema sarà la Repubblica Araba Unita, l’odierno Egitto, capace di regolare di misura l’Uganda. Sotto lo sguardo sgranato dell’imperatore Hailé Selassié, Etiopia e Repubblica Araba scendono in campo circondati da venticinquemila tifosi in visibilio. Nel 1957 l’Egitto aveva sollevato l’ambito trofeo proprio sotto il naso della selezione etiope, liquidata con un sonoro 4-0. Per i Walyas è dunque l’occasione di vendicare quella cocente umiliazione. Forti dell’esperienza acquisita negli anni, gli etiopi non assecondano timori reverenziali di sorta e partono a spron battuto. La partita è piacevole, qualcuno postumamente azzarderà anche iperbolici superlativi apostrofandola come “la più bella partita mai giocata in Africa”. Al 35’ Abdelfattah Badawi spegne gli entusiasmi della folla infilando il malcapitato Gila-Michael Tekle Mariam. Girma Tekle Kidane, centrocampista dal piede raffinato, rimette in careggiata la truppa di Tessema. Gioia effimera. Un giro di lancette più tardi l’onnipresente Abdelfattah Badawi indirizza di nuovo la coppa verso Il Cairo. Partita compromessa, ad una manciata di minuti dal termine il terzo titolo consecutivo dei Faraoni sembra ormai cosa fatta. Al 85’ su uno spiovente dalla fascia Mengitsu Worku sguscia tra le maglie egiziane, svetta, il portiere etiope gli rifila un pugno sull’arcata sopraccigliare sinistra, ma non riesce ad impedire la rete del 2-2. Lui, il sommo calciatore etiope, scherza sull’episodio : “Mio padre è morto per il mio Paese, io non ho problemi a sopportare un occhio nero per l’Etiopia!”. La contesa è rimessa al giudizio inappellabile dei supplementari. O tutt’al più dei calci di rigore. La tensione è palpabile, le ugole etiopi possono sbizzarrirsi in concerto quando Italo Vassallo approfitta di un errore della sbadata retroguardia nordafricana e insacca alle spalle di Adal Mohammed Heykal. Worku però non è pago, c’è un titolo di cannoniere da conquistare ed un bottino da rimpinguare. Il numero otto offre un corollario delle sue abilità: salta in slalom quattro avversari e poi di gran carriera piazza un sinistro terrificante.

L’imperatore Selassié esulta, avvinghia a se il trofeo prima di consegnarlo nelle mani del capitano Vassallo. Luciano verrà eletto miglior giocatore della competizione, unico giocatore etiope ad essere insignito di tale onoreficenza. Dodici anni più tardi i golpisti capeggiati dal generale Aman Micael Andom arresteranno l’imperatore, dando una svolta marxista al paese. Worku girerà il mondo morendo all’età di settanta anni, Tessema verrà eletto anche presidente della Confederezione Calcistica Africana prima di spegnersi nel 1987 all’età di sessantasei anni, mentre Luciano sarà costretto a ritornare in Italia dopo aver denunciato un caso di doping in seno alla selezione etiope. Ricoprirà anche la carica di allenatore, giocherà per Gujeret e Asmarina prima di lasciare casa e officina in Africa per trasferirsi via Gibuti a Marcellina, frazione di Tivoli, dove vive tutt’ora e dove ha scritto anche un libro autobiografico dal titolo “Mamma, ecco i soldi”. Perchè come dice Luciano “il calcio in Africa non ti da da mangiare, ho fatto di tutto: muratore, falegname, meccanico”.

Vincenzo Lacerenza (twitter: @vinlacer7)
 
a cura di Lacerenza Vincenzo
fonte aviglianonline.eu